Il cibo nell’arte moderna e contemporanea. Una visione etica e sostenibile dell’alimentazione di Stefano D’Alessandro

    Maria Grazia Caso

    Andy Warhol – 200 Campbell’s soup cans

    Siamo negli Stati Uniti degli anni ‘60 del ‘900, in un tempo e un luogo dove il talento viene premiato sopra ogni altra cosa; è il posto ideale, per un giovane creativo proveniente da una famiglia di umili origini emigrata dall’ucraina, per rincorrere i propri sogni di gloria e diventare uno degli artisti più famosi della storia.
    Sono gli anni della Pop Art, la corrente artistica nata in Inghilterra che, attraverso il riutilizzo di immagini generate dai media, si burla della società dei consumi, realizzandone caricature attraverso i suoi stessi linguaggi. Il cibo è al centro delle trasformazioni economiche e sociali in atto nella civiltà occidentale: sempre più un bene destinato alla produzione di massa, finisce per diventare al contempo oggetto del desiderio nelle numerose réclame in cui è protagonista; in questo clima, gli artisti non potevano non eleggerlo come uno dei loro temi preferiti da trattare.
    La “versione americana” della Pop Art guarda però alla deriva del consumismo in maniera differente: gli artisti non lasciano trapelare il loro pensiero critico, riversano il meno possibile di loro stessi nell’opera, limitandosi a prelevare icone generate dalle comunicazioni di massa e, modificandole attraverso operazioni di ingrandimento o di moltiplicazione, le rivestono di nuovi significati.
    E’ sul fronte della moltiplicazione che si muove l’opera di Warhol 200 Campbell’s soup cans. L’immagine della celebre zuppa statunitense è l’emblema del consumismo imperante dell’epoca; Warhol, in un atteggiamento apparentemente acritico, riproduce la scatoletta per ben 200 volte, e con la ripetizione di un modulo crea un pattern decorativo che, se da un lato cattura lo sguardo, dall’altro lo investe con una ridondanza informativa tale da finire quasi per disturbare l’osservatore.
    L’artista esegue un’operazione a prima vista banale, ma che nella sua estrema semplicità riesce a descrivere lo Zeitgeist dell’epoca: non 200, ma 2000, milioni di scatolette di zuppa, tutte identiche a loro stesse, ad uso e consumo di un cittadino omologato che la società vuole solo acquirente; nemmeno il cibo si salva da questo processo di mercificazione, nascosto com’è da un asettico packaging di alluminio. Di fronte ad una società che rende tutto “banale”, per Warhol un’arte “popolare”, consumata come un qualsiasi altro prodotto commerciale, è l’unica strada per ripristinare la dignità degli oggetti, dell’uomo in quanto individuo e anche di ciò di cui si nutre.

    Daniel Spoerri – Tableau piège

    Vissuto nello stesso periodo, ma con una visione molto differente dell’arte, Daniel Spoerri è un artista rumeno naturalizzato svizzero. La nuova patria è un tassello importante della sua biografia: durante la guerra, il padre viene trucidato dai nazisti e la famiglia è costretta a cercare rifugio proprio a Zurigo. In un’europa ancora scossa dalle terribili vicende della seconda guerra mondiale, Spoerri, assieme ad altri artisti, redigerà a Parigi il manifesto del cosiddetto Nouveau Realisme, movimento che reagisce con l’ironia ai paradossi di un’epoca in cui convivono il consumismo più sfrenato e l’emergere di nuove problematiche che segneranno il mondo negli anni a venire.


    La poetica dell’oggetto è, così come per la Pop Art, al centro del movimento artistico francese; mentre però i colleghi inglesi e americani prediligono lavorare sulle immagini, gli esponenti del nuovo realismo non hanno paura di “sporcarsi le mani”: inserendo nelle loro opere direttamente gli oggetti, su di essi lasciano colare vernici, colle, qualsiasi elemento che possa “contaminare” l’asetticità delle merci dell’industria di massa. Sembra che alla lezione duchampiana del ready made, un oggetto prelevato dalla realtà e inserito in un diverso contesto atto a restituirgli un nuovo senso, uniscano gli insegnamenti dell’espressionismo astratto americano e della pittura informale europea, che hanno lasciato come eredità un uso del colore libero da qualsiasi vincolo accademico, apprezzabile anche per la
    sua intrinseca matericità.


    Anche loro guardano con interesse al cibo, e per l’arte di Daniel Spoerri esso costituirà una importantissima fonte di ispirazione. L’artista è infatti diventato celebre per i suoi Tableau Piege: letteralmente “quadro-trappola”, espressione che gioca con le parole tableau, che in francese può voler dire sia “tavola” sia, appunto, “quadro”.
    Sono tavole imbandite, apparecchiate di tutto punto e con tanto di cibo ancora nei piatti, che l’artista incolla col fine di “preservarle” ed immolarle ad imperituro beneficio dell’arte, e che dispone verticalmente appese al muro, per restituire loro la “forma quadro”.
    L’effetto di queste installazioni è quello di una fotografia di una tavola lasciata dai commensali dopo il pasto: il loro “esserci stati” è tangibile, avvertiamo la presenza di qualcuno che, pur non essendo più presente nella scena, vi ha lasciato visibili impronte del proprio passaggio. Cibo, posate, centrotavola e utensili, tutto è come congelato e immobile.
    Osservando queste opere siamo messi innanzitutto davanti agli incredibili scenari immaginifici che possono aprirci anche gli eventi più insignificanti, se prelevati dalla banalità del quotidiano; non possiamo far altro che stupirci nel riflettere su quali armoniose composizioni, quali splendide cromie, saremmo capaci di generare anche noi se solo restituissimo il giusto valore a gesti quotidiani che ormai diamo per scontati.
    I residui di cibo lasciati dagli immaginari commensali sono elementi biodegradabili, ma il loro processo di decomposizione è stato inesorabilmente bloccato; la sensazione del tempo fermo, l’immagine congelata che precede il compiersi di un destino altrimenti ineluttabile, ci lascia sospesi a contemplare quella linea di confine terribile e piena di mistero, ma che proprio per questo affascina l’uomo da sempre, fra la vita e la morte.

    Infine, non può non farci riflettere l’abbondanza, fino ad arrivare allo spreco, che popola queste tavole, e che troppo spesso troviamo rispecchiata in contesti ben più reali, spesso molto vicini a noi. Oggi, una ritrovata sensibilità etica ci impone una visione più sostenibile della vita, volta a preservare le risorse per le generazioni che verranno; anche l’arte, quando si è fatta portavoce di queste importanti tematiche, è servita a cambiare la nostra mentalità, e può ancora farlo verso l’obiettivo di un mondo dove i valori di bellezza, giustizia ed equità non vengano mai più traditi