Il Cilento è silenzio.

    Maria Grazia Caso

    Il Cilento, bellezza isolata, misconosciuta, deturpata e indomita

    “Mentre veleggio lungo coste frastagliate a picco su marosi  blu-arancio, ai margini di tramonti infuocati di verdi bagliori che trafiggono cuori selvaggi…mi ricordo di Te”.

    Con questi versi un anonimo poeta, navigando il mare del Cilento e descrivendo quel che vedeva, gli sovveniva alla mente quel che non era più. Il Cilento luogo di separatezze e precipizi di “Separe e Sderrupi”, una natura a tratti incontaminata e selvaggia, a tratti brutalizzata e violentata. Inerpicandosi lungo strade, poco più che tratturi, a poca distanza dalla costa imbarbarita da follie architettoniche e folle di bagnanti, si scoprono antichi manieri e borghi isolati, un tempo abitati da operosi “gualani” e rubizzi contadini che faticavano indefessamente, sotto gli occhi boriosi di avidi baroni e gli sguardi compiaciuti di annoiate baronesse. Un paesaggio costellato da vecchi ficheti abbandonati e nuovi ficheti trapiantati, da nuove vigne che fanno capolino tra la folta macchia mediterranea, che se ripreso quel che le spettava invadendo lo spazio di fondi incolti e ulivi centenari inselvatichiti e torti, che guardano con invidia i giovani ulivi piantati a schiera come fossero sfrontati e altezzosi soldatini. Il Cilento vive, tra ripresa ed oblio, tra miseria e nobiltà, tra la bellezza presunta cancellata dalla furia dell’uomo e la bellezza vera dell’abbandono. La vera identità culturale, storica e antropologica del Cilento risiede nella cura antica e velleitaria di coloro che, impavidi e coraggiosi, sono rimasti ad ossequiare la propria madre. Il Cilento è lo stupore di un cielo notturno trapuntato di stelle, quando nelle notti d’estate attraversando una valle scura, poco sotto un piccolo borgo arroccato su una rupe, attraversi un fiume su un ponte traballante, ti fermi e stai li impalato ai margini della strada a contemplare il cielo stellato alla ricerca scrupolosa delle costellazioni, mentre con fare furtivo la luna fa capolino dietro il picco più alto della montagna e intanto tutto intorno a te è buio e silenzio. Tutto quel che il Cilento ti regala è solitudine di pensiero e beatitudine d’animo Il Cilento sospeso tra mito e realtà, frequentato da almeno trecentomila anni. Un passato che affonda le sue radici fino agli albori dell’evoluzione umana, dal Paleolitico al Neolitico, dall’Età dei Metalli alla Civiltà del Gaudo. Il Cilento, una Terra, a stretto contatto con le altre civiltà del Mediterraneo, ne sono testimonianza i manufatti prodotti a Palinuro e ritrovati in molte aree dell’allora mondo conosciuto. Parte fondamentale della Magna-Grecia, il Cilento, con Paestum fondata dai Sibariti e Elea-Velia fondata dai Focei provenienti dall’Asia Minore, ha dato un notevole contributo alla Civiltà Occidentale, con l’Architettura Dorica di Paestum e la Scuola Filosofica di Elea fondata da Parmenide. Il Cilento terra di Città e miti, come quelli della Sirena Leucosia, di Palinuro nocchiero di Enea, degli Argonauti di Giasone fondatore del Santuario di Hera Argiva alla Foce del Sele a Paestum. Terra fertile, quella cilentana, che Ottaviano Augusto volle eleggere a provincia dedita all’agricoltura e all’allevamento, prodotti agricoli apprezzati a Roma allora e in tutto il mondo ora. Dopo la fine dell’Impero Romano, il Cilento farà parte del Principato Longobardo di Salerno, poi divenne Baronia con i Sanseverino e la conseguente rivolta di Capaccio del 1246 contro Federico II, fino ad arrivare all’insurrezione cilentana del 1828 contro Francesco I di Borbone. Con l’avvento dei Savoia, i cilentani si ribellarono alle ingiustizie dei nuovi padroni sabaudi, dando vita al fenomeno del brigantaggio, ben descritto nel film “Noi Credevamo” di Mario Martone. La bellezza paesaggistica del Cilento, nonostante la millenaria antropizzazione appare un miracolo. Una bellezza per ampi tratti incontaminata, se non si considera lo scempio della costa, la cattiva politica, la carenza di manutenzione del territorio e la carenza infrastrutturale. Tutta questa bellezza ha però assuefatto i cilentani, ha intorpidito le loro menti, ha atrofizzato la loro capacità di stupirsi e di gioire della bellezza della propria terra. Una bellezza molto apprezzata dai forestieri, dai viaggiatori, dagli scrittori e dai poeti che con parole e versi ne hanno cantato i suoi trascorsi storici, artistici e filosofici. Una scrigno di tesori materiali e immateriali di valore immenso, mare, montagne, fiumi, colline, cibo e tradizioni, tutto confinato e in bilico tra un presente da declinare e un passato da valorizzare. Vivere in un contesto paesaggistico di pregio, mangiare cibo buono, non basta, tutto deve essere accompagnato dalla messa in sicurezza del territorio, dalla conservazione dei centri storici, dalla promozione di natura, storia ed enogastronomia locale, in modo che il territorio del Cilento, unico nel suo genere, possa fare da modello di normalità da imitare, sotto il profilo nutrizionale e di eco-sostenibilità. Una normalità che va penetrata e non sorvolata. Il Cilento va conosciuto, goduto e gustato senza meta, guardando in alto e in lontananza, individuando tra le aspre vette una rocca, un borgo, un bosco,  raggiungerlo senza preoccuparsi di perdersi, perché quel borgo che state visitando, quel bosco che state attraversando, quella strada che state percorrendo, vi porteranno a casa, ma lasciandovi la nostalgia del ritorno, la malinconia di perdersi nella bellezza che resta, nel sogno che muta, nella gioia del ricordo.

    Lucio Capo .